Il XXI secolo ci chiede stabilità, buon senso e scelte condivise

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di Andrea Fais

L’attacco sferrato dagli Stati Uniti in Siria ha lasciato il mondo interdetto. Dopo una settimana lunghissima, cominciata con l’attentato nella metropolitana di San Pietroburgo e proseguita con l’utilizzo a scopo militare di gas sarin nella cittadina siriana di Khan Sheikhoun, vicino Idlib, Donald Trump ha rotto gli indugi e, nella notte a cavallo tra il 6 e il 7 aprile scorsi, ha dato ordine a due cacciatorpediniere della Marina di sganciare 59 missili Tomahawk, di cui 36 forse intercettati dai sistemi di difesa siriani, contro la base militare da cui, secondo le accuse di Washington, sarebbe partito l’attacco chimico ordinato da Damasco. Stando all’agenzia Sana, il bombardamento statunitense avrebbe causato la morte di 6 militari e 9 civili, tra cui 4 bambini.


L’attacco chimico di Damasco: ipotesi credibile?

L’accusa contro Damasco per l’episodio di Khan Sheikhoun è stata lanciata inizialmente dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, un’organizzazione fondata nel 2006 da Rami Abdel Rahman, un esule fuggito dalla Siria nel 2000, oggi residente a Coventry, in Inghilterra, da dove fornisce quotidianamente cronache sulla guerra in corso.
In un primo momento la memoria è tornata al 2013, quando a marzo il villaggio di Khan al-Assal, vicino Aleppo, fu colpito da un missile imbottito di gas nervino, e ad agosto la cittadina siriana di Ghūṭa fu teatro di un nuovo attacco chimico che provocò centinaia di morti, tra cui molti bambini. A maggio, a cavallo tra i due episodi, Carla Del Ponte, ex procuratore della Corte Internazionale de L’Aja, membro della Commissione ONU sulla Siria, aveva affermato di aver raccolto «alcune testimonianze sull’utilizzo di armi chimiche, e in particolare di gas nervino: non da parte delle autorità governative bensì da parte degli oppositori, dei resistenti».

Intervistata da La Repubblica a settembre di quello stesso anno, la Del Ponte confermava i forti dubbi della Commissione ONU sull’attribuzione delle responsabilità alle Forze Armate Siriane di Bashar al-Assad, invitando alla massima cautela. Pochi mesi dopo, cioè nel febbraio 2014, una commissione d’inchiesta del Consiglio ONU per i Diritti Umani (A-HRC-25-65) concludeva che, stanti le numerose violazioni dei diritti umani da parte di entrambe le fazioni belligeranti, «in nessun incidente [chimico, nda] è stata raggiunta una soglia probatoria in relazione al colpevole», ma anche che gli agenti chimici rivenuti nell’attacco a Khan al-Assal «presentavano le stesse caratteristiche di quelli utilizzati a Ghūṭa». Nel 2013, dunque, i responsabili furono molto probabilmente gli stessi sia nell’attacco chimico del 19 marzo che in quello del 21 agosto.

In quel tesissimo clima di quasi quattro anni fa, gli Stati Uniti e diversi partner europei minacciarono più volte un intervento militare in Siria allo scopo di detronizzare il presidente Assad, già finito sul banco degli imputati per l’utilizzo delle armi proibite. Vladimir Putin, al tempo ancora coinvolto nel teatro mediorientale soltanto indirettamente, convinse il presidente siriano a concordare con la comunità internazionale lo smantellamento dell’arsenale chimico ancora in dotazione all’esercito di Damasco. Il 21 settembre fu consegnato l’inventario completo all’ONU ed il 6 ottobre cominciarono le operazioni di consegna all’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW).

Nel 2014, tra giugno e luglio, 581 tonnellate di precursori chimici per la preparazione del sarin furono prese in consegna dalla Marina degli Stati Uniti e distrutte in acque internazionali, come riportato anche da John Kirby, all’epoca portavoce del Pentagono. Il 13 agosto, il direttore generale dell’OPCW Ahmet Üzümcü ringraziò pubblicamente Washington «per aver completato la distruzione dei precursori chimici in modo sicuro e rispettoso dell’ambiente, e per il contributo complessivo negli sforzi internazionali tesi ad eliminare l’arsenale chimico della Siria».

Pur senza fornire alcuna certezza assoluta, questi elementi avrebbero dovuto quanto meno porre più di un dubbio in merito alla determinazione delle responsabilità per il recente episodio di Khan Sheikhoun. La versione russa, che nel vuoto delle ipotesi fuori dal campo di battaglia vale né più né meno di quella statunitense, ammette la presenza del sarin, ma ne attribuisce la paternità ai ribelli islamisti che controllavano l’area. In sostanza, secondo Mosca e Damasco, l’aviazione siriana avrebbe sì provocato l’esplosione dell’agente chimico, ma colpendo un deposito militare dei ribelli, senza sapere cosa vi fosse contenuto.

Pur non essendo in possesso di prove schiaccianti che la dimostrino definitivamente, la spiegazione russo-siriana, visti gli esiti delle indagini internazionali precedenti e la consistenza delle forze in campo, ha una sua forza argomentativa. Al di fuori dell’episodio incriminato, su un piano più strettamente politico-militare, in effetti l’esercito regolare siriano, in forte recupero sul territorio nord-occidentale, avrebbe avuto tutto l’interesse a concludere in fretta e senza clamori le operazioni di liberazione dell’area dalle forze ribelli. L’incidente ha invece ottenuto l’effetto di risvegliare l’attenzione internazionale su Damasco e compattare nuovamente un fronte di Paesi che, in alcuni casi, sembravano addirittura in crisi fra loro. Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna, Israele, Turchia, Arabia Saudita e Qatar non hanno esitato né concesso spazio a dubbi. Tutti, automaticamente, hanno dato per certa la versione diramata dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.


Lo Stato profondo e l’attivismo di Trump

Donald Trump ha ricevuto il pieno appoggio da parte di quei governi europei che ne avevano salutato quasi con sdegno l’elezione, schierandosi più o meno dichiaratamente dalla parte di Hillary Clinton in campagna elettorale. Al contrario, esponenti europei di destra come Marine Le Pen e Matteo Salvini, dopo aver dichiarato più volte la loro simpatia politica per il nuovo inquilino della Casa Bianca, lo hanno duramente criticato per l’intervento in Siria.

Cosa sia davvero successo a Washington possiamo soltanto immaginarlo. Molti parlano di un richiamo all’ordine per Trump da parte del cosiddetto Deep state, cioè quello Stato profondo americano dove certi interessi nazionali “forti” si intrecciano a tal punto da assottigliare ai minimi termini le differenze tra repubblicani e democratici. Sarebbe dunque saltata la linea morbida che Trump era intenzionato ad utilizzare nei confronti di Mosca, ammesso che fosse davvero così.

Nel corso dell’ultimo anno, la polarizzazione dello scenario politico occidentale ha senz’altro contribuito a costruire, soprattutto in Europa, un quadro piuttosto deficitario e semplicistico degli equilibri internazionali. La suddivisione tra “responsabili” e “populisti”, “liberali” e “protezionisti”, “democratici” e “decisionisti”, in realtà, è quasi totalmente priva di reali contenuti politici, lasciando il tempo che trova. Sono infatti bastati 59 missili cruise americani contro la Siria per annullare ogni frizione interna e ricompattare la NATO, mettendo in secondo piano la Brexit, i presunti “intrecci russi” di Trump, i suoi presunti scandali sessuali o le sue intransigenti decisioni in materia migratoria. Sparisce per il momento dalle cronache anche la fantomatica costruzione del muro confinario col Messico che, in realtà, esiste già da vent’anni e che nel 2006, col Secure Fence Act voluto da George W. Bush, fu consolidato e messo in sicurezza (attraverso videosorveglianza e droni) grazie anche al voto favorevole degli allora senatori Hillary Clinton e Barack Obama. Come si diceva, appunto, lo Stato profondo.


Le reazioni fuori dall’Occidente

Le reazioni nell’altro mondo, quello che molti nostri opinionisti mainstream sono soliti escludere dal sempre più labile concetto di comunità internazionale, non si sono fatte attendere. Mosca ha ovviamente condannato l’azione unilaterale di Washington ed il primo ministro Dmitrij Medvedev ha affermato in un breve comunicato che gli Stati Uniti sono arrivati «ad un passo dallo scontro con la Russia».

Dopo i fatti della notte scorsa, la Bolivia ha chiesto una riunione d’urgenza al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, durante la quale l’ambasciatore del piccolo Paese indio-latino Sacha Llorenti ha sarcasticamente mostrato la foto dell’ex segretario di Stato americano Colin Powell, intento nel 2003 ad esibire la provetta che, secondo le sue accuse, avrebbe dimostrato la presenza di un arsenale di armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein. Come ormai sappiamo, il supposto arsenale iracheno non fu mai trovato e l’ex primo ministro britannico Tony Blair è stato addirittura messo sotto accusa dal Rapporto Chilcot per aver portato in guerra il Regno Unito sulla base di prove non documentate.

Il Ministero degli Esteri di Pechino ha invece diramato una nota cauta, come nello stile del governo cinese, ma molto chiara, invitando gli Stati Uniti a non deteriorare ulteriormente la situazione siriana e confermando l’esclusiva praticabilità della «soluzione politica» alla crisi in atto. La presenza di Xi Jinping in Florida per il vertice con Donald Trump proprio nella notte del bombardamento ha persino insinuato in diversi osservatori il dubbio che l’attacco statunitense potesse avere una duplice valenza, rivolta indirettamente anche alla Cina in relazione alla Corea del Nord. Ma se Trump pensasse davvero di poter spaventare Pechino in questo modo dovrebbe seriamente ristudiarsi i fondamentali della politica internazionale.

La reazione più dura è sicuramente arrivata dal Brasile, dove l’ex presidente Lula ha aspramente criticato la decisione del presidente americano, denunciando gli ostacoli posti in passato dagli Stati Uniti sul cammino della riforma – a lungo promossa dal Paese sudamericano – del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, una riforma che a questo punto si fa sempre più urgente in un mondo profondamente cambiato dai tempi della Guerra Fredda.


La lista dei Rogue states è ancora valida?

Resta comunque il fatto che da almeno venticinque anni, al di là del partito al potere, negli Stati Uniti sembra essere ancora ben appuntata nelle lavagnette della Casa Bianca e del Pentagono la vecchia lista dei Rogue states (Stati canaglia), poi sistematizzata da George W. Bush nel 2002 con la compilazione del cosiddetto Axis of evil (Asse del male).

Dopo gli interventi militari in Serbia, in Afghanistan, in Iraq e in Libia, e la normalizzazione dei rapporti con Cuba e Iran, ancora tutte da confermare e definire, la Siria e la Corea del Nord restano due obiettivi indiscussi nell’agenda internazionale di Washington, ai quali potrebbe tornare presto ad aggiungersi anche il Sudan. Siria a parte, su altri dossier Donald Trump era per altro già stato piuttosto chiaro in campagna elettorale, contestando ad Obama gli accordi raggiunti, sebbene molto cautamente, con L’Avana e Tehran.

Le ragioni umanitarie e il richiamo alla sicurezza nazionale non sono le uniche motivazioni che hanno spinto o spingono gli Stati Uniti ad insistere sull’intenzione di favorire un regime-change in questi Paesi. Senza scomodare le varie e fantasiose versioni complottiste che abbondando in rete, c’è stato e c’è, soprattutto in Medio Oriente e in Africa, un interesse strategico, talvolta ritenuto più emergente talvolta meno, ad incunearsi in alcune aree considerate prioritarie per un più agevole controllo dei flussi commerciali ed energetici.

Tuttavia, se è assolutamente legittimo per gli Stati Uniti avere una propria politica estera finalizzata a realizzare i propri interessi, come fa qualunque altra nazione nel mondo, questa politica non può certo arrogarsi il diritto di sovrastare o umiliare le aspirazioni degli altri Paesi o di scavalcare l’ONU in materie così delicate, come per troppe volte ha già fatto in passato, finendo col destabilizzare regioni o aree del mondo al di fuori dei propri confini nazionali.

Il caso libico è probabilmente il più emblematico in tal senso. Con la rimozione forzata di Muammar Gheddafi, ordinata da Barack Obama nel quadro NATO, il Paese è finito nel caos più completo: privato di un suo governo legittimo ed unanimemente riconosciuto, castrato delle sue infrastrutture vitali, come il Grande Fiume Artificiale e i principali collegamenti stradali, e preso d’assalto da gruppi armati ed organizzazioni terroristiche che ne hanno fatto un crocevia per la gestione del traffico di esseri umani diretti verso l’Italia e il resto dell’Europa. Prima di qualsiasi processo sulle effettive responsabilità del Rais libico nella presunta repressione dei manifestanti all’inizio del 2011, la situazione drammatica che vive oggi la Libia ha già dato una sentenza politica su quei fatti.

La globalizzazione richiede stabilità, buon senso e condivisione. Senza questi requisiti fondamentali, non c’è pace. Senza pace, non c’è sviluppo. Senza sviluppo, non c’è crescita. Senza crescita, non c’è benessere. Né qui da noi, né altrove.




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