Sabato scorso, l’Economist ha pubblicato un articolo che mette in luce lo slittamento in atto nella politica economica del Vaticano sotto il pontificato di Papa Francesco. Dalla filantropia, e dalla carità che ne consegue, la nuova strategia della Santa Sede sarebbe quella di affiancare alle tradizionali opere di bene i vari fondi di investimento ad impatto sociale attivati dagli istituti religiosi, soprattutto negli Stati Uniti. Secondo il settimanale britannico, tuttavia, all’interno dello Stato Vaticano permarrebbero controversie e divisioni sul tema, oltre alla carenza di personale in possesso delle competenze necessarie in ambito finanziario.
«Non potete servire Dio e il denaro», ammonisce la Bibbia. Eppure, la Chiesa ci ha sempre provato. Nel Medioevo, i monasteri rappresentavano ciò che oggi considereremmo imprese sociali. Produrrebbero pane, libri ed altri beni. Ad un frate francescano è attribuita la codificazione della contabilità a doppia partita. Ai giorni d’oggi, la Chiesa Cattolica e le istituzioni ad essa collegate controllano molti miliardi di dollari. Una parte è investita per ottenere un introito; un’altra parte è destinata ad opere di bene. Le due attività sono state a lungo viste come separate, ma durante il pontificato di Papa Francesco, questa suddivisione si sta dissolvendo. Gli investimenti “ad impatto” – finalizzati contemporaneamente a produrre ricchezza e a fare del bene – sta aumentando la sua importanza. E sta anche creando qualche controversia.
Nel 2014, il Papa, parlando durante una conferenza in Vaticano sugli investimenti ad impatto, ha fatto appello ai cristiani a riscoprire «questa preziosa e primordiale unità tra il profitto e la solidarietà». La sua Chiesa ha risposto. Alcuni istituti cattolici con capitali da investire – tra cui i Gesuiti, le Suore Francescane di Maria e l’Ascension Investment Management – hanno destinato una parte dei propri investimenti ai fondi ad impatto.
Nel frattempo sono stati creati nuovi fondi ad impatto cattolici, come ad esempio quelli gestiti da Oblate International Pastoral Investment Trust, cui sono affidate le risorse finanziarie di oltre 200 organizzazioni cattoliche provenienti da più di 50 Paesi. Altri hanno preso parte a sforzi congiunti per uniformare le proprie strategie di investimento. Il Catholic Impact Investing Collaborative, ad esempio, raccoglie 30 istituti cattolici statunitensi, che gestisce asset per 55 miliardi di dollari (di cui una piccola parte è destinata agli investimenti ad impatto). Per incoraggiare il coinvolgimento pubblico, sono stati aperti fondi ad impatto “retail”, permettendo ai donatori di acquisire una quota ad un prezzo irrisorio, cioè appena 30 dollari.
Al momento, i capitali cattolici dedicati agli investimenti ad impatto ammontano a circa 1 miliardo di dollari. Tanti sono gli asset della Chiesa da poter modificare le dimensioni del mercato degli investimenti ad impatto. Potrebbe tuttavia modificare anche il modello finanziario vaticano: da uno di tipo “sequenziale”, dove la Chiesa acquista ricchezza per poi concederla, ad uno di tipo “parallelo”. Questo provoca apprensione negli ambienti cattolici.
Alcuni membri del clero temono che guadagnare dalla filantropia possa essere contrario all’imperativo morale fondamentale di prendersi cura dei bisognosi. Altri paventano una perdita di contatto con i beneficiari della generosità cattolica. Questo slittamento strategico richiede probabilmente una riorganizzazione del personale. Nella stessa Chiesa, sono pochi a possedere le competenze finanziare necessarie, sebbene le congregazioni possano rappresentare una fonte preziosa.
La strada degli investimenti ad impatto è stata ispirata dal Papa, ma, come suggerisce una fonte vaticana, è guidata da organizzazioni come Catholic Relief Services, un’agenzia umanitaria, altri organismi cattolici ed un nuovo dicastero della Santa Sede, creato quest’anno per il “Servizio dello Sviluppo Umano Integrale”. Nessuno sta inseguendo una riforma radicale della filantropia ecclesiale. Gli investimenti ad impatto sono interpretati come una strategia promettente, ma nient’altro che complementare. L’impatto non è ancora un sostituto della carità.
Quest’articolo è apparso nella sezione Finance and economics dell’edizione cartacea con il titolo “Faith, hope and impact”
Traduzione a cura della Redazione
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