Beniamino Quintieri (SACE): Nostre aziende avanzano ma strada ancora in salita. Occhio a 15 mercati promettenti

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SACE, società di servizi assicurativi e finanziari per le imprese italiane che vogliono operare all’estero, costituisce ormai da tempo, assieme a SIMEST, il Polo dell’export e dell’internazionalizzazione del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti. Dopo averlo raggiunto poco meno di un anno fa per un’intervista pubblicata all’interno de La Penisola del Tesoro, settimo numero cartaceo di Scenari Internazionali, abbiamo contattato nuovamente il presidente Beniamino Quintieri per fare il punto della situazione sull’export italiano, sul livello di internazionalizzazione raggiunto dalle nostre imprese e per capire cos’è accaduto in questo controverso 2017.

A cura della Redazione

Stando agli ultimi dati, l’export italiano ha lanciato segnali incoraggianti sia verso i mercati UE che verso quelli extra-UE. Quali sono i mercati di sbocco che forniscono maggiori garanzie in questa fase? Quali, invece, quelli più promettenti per il futuro?
Lasciati alle spalle gli anni più duri della crisi, ci avviamo verso una fase più positiva, in cui export e internazionalizzazione si confermano ancora una volta leve imprescindibili di sviluppo per il nostro Paese. A dispetto dei timori per le politiche protezionistiche, non solo nei primi 7 mesi del 2017 il commercio mondiale è cresciuto del 4,2%, ma è previsto in crescita al 4,3% per l’intero anno. In questo contesto globale favorevole, l’export italiano continua a mostrare una dinamica piuttosto robusta, toccando quota 7,6%, in valore, nei primi otto mesi del 2017 su base tendenziale, con ottime performance registrate sia nell’area UE che extra-UE. La crescita delle esportazioni si è rivelata solida nei mercati tradizionali (Germania, Francia e Spagna) e addirittura sopra la media nei Paesi dell’Est Europa (Polonia, Repubblica Ceca e Romania). Anche le esportazioni verso i Paesi extra-UE sono risultate molto positive, con un +8,2% in Cina e con esportazioni verso la Russia attestatesi sopra al 20%; bene anche le vendite nell’area Mercosur (+16,2%). Questo trend positivo – confermato anche dall’andamento delle nostre esportazioni nei primi otto mesi del 2017 – lascia sperare in una chiusura d’anno intorno al 4%.
Le previsioni del nuovo Rapporto Export Unchained. Dove la crescita attende il Made in Italy di SACE indicano un ritmo analogo (+4% medio annuo) fino al 2020: un netto stacco rispetto alla performance meno brillante del 2016 (+1,2%). In questa fase, il Rapporto Export di SACE ha individuato alcune geografie strategiche per le imprese italiane da presidiare nei prossimi quattro anni. In particolare, ne segnala 15: Arabia Saudita, Brasile, Cina, Emirati Arabi, India, Indonesia, Kenya, Messico, Perù, Qatar, Repubblica Ceca, Russia, Stati Uniti, Sudafrica e Vietnam. Un mix di Paesi promettenti – sia emergenti sia avanzati – che da soli pesano per il 20% sul totale dell’export italiano e che nel 2020 varranno più di 100 miliardi di euro di export, rappresentando il principale aggregato economico per il Made in Italy, dopo i Paesi europei ad alto reddito.

Poco meno di un anno fa, nell’intervista che ci concesse per il settimo numero della nostra rivista, affermò che «rispetto ai principali competitor stranieri, le imprese italiane risultano ancora poco internazionalizzate». È ancora di questo avviso o sono stati effettivamente compiuti passi in avanti?
Sebbene la situazione sia in graduale miglioramento rispetto a un anno fa, grazie ad un contesto globale ancora complesso ma che dà segnali di ripresa, esiste tutt’ora un ampio margine di sviluppo per le aziende del nostro Paese. Questo è vero soprattutto per i mercati ancora poco presidiati di cui parlavamo poco fa – dove le imprese del Made in Italy devono puntare a guadagnare nuove quote di mercato ed incrementare la propria competitività – esattamente come fanno i loro peers, francesi e tedeschi in primis.
Le aziende italiane stanno compiendo decisi passi in avanti; la strada, tuttavia, è ancora lunga per il nostro Paese, in cui il limite dimensionale è sicuramente l’ostacolo più grande per le nostre imprese, poiché ne impedisce spesso un’adeguata patrimonializzazione, necessaria per affrontare i mercati esteri ed intraprendere piani di investimento idonei per la sostenibilità del business nel tempo. In Italia ci sono circa 20.000 imprese che esportano in più di 15 Paesi ed altre 15.000 presenti con le proprie merci in un numero di mercati compreso tra 6 e 15, che potrebbero ampliare ulteriormente il loro raggio d’azione e aumentare la loro proiezione internazionale. In questo contesto, tuttavia, almeno altre 60.000 aziende, pur essendo esportatori occasionali, non riescono ancora a cogliere appieno tutte le opportunità esistenti, operando prevalentemente nei mercati più conosciuti dell’Europa occidentale. Questo è il nostro obiettivo: trasformare un numero crescente di esportatori occasionali in esportatori ricorrenti. Lo dobbiamo fare spronando le aziende italiane ad essere coraggiose, in un mondo in cui andare oltre confine e puntare sull’innovazione sono le uniche chiavi per continuare a crescere in modo solido e duraturo.

Lo scorso mese è entrato in vigore in via provvisoria il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada che apporta interessanti novità tra le due sponde dell’Atlantico settentrionale ma che ha suscitato anche forti polemiche. Secondo Lei, quali vantaggi potranno trarne le nostre imprese e, laddove ve ne fossero, quali potrebbero essere, invece, gli aspetti più rischiosi?
Bruxelles, di fronte ad un’Organizzazione Mondiale del Commercio che sta gradualmente cedendo il passo alle intese bilaterali, si sta ponendo sempre più come promotore mondiale del libero scambio. Così facendo, l’UE sta lanciando un forte segnale contro i venti di protezionismo, influenzando le regole del commercio mondiale anche dal punto di vista della definizione degli standard. Il CETA è un esempio lampante di questa tendenza. Il termine comprehensive riflette la portata dell’accordo, che non riguarda soltanto gli scambi di beni e servizi, ma anche gli investimenti e la libera circolazione delle persone. L’accordo garantisce inoltre il mutuo riconoscimento delle certificazioni per una vasta gamma di prodotti, abolisce il 99% dei dazi sulla maggior parte di beni e servizi scambiati e tutela 143 indicazioni geografiche europee, di cui 39 italiane. Le stime della Commissione Europea sull’impatto dell’accordo segnalano un aumento del PIL dell’UE di circa 12 miliardi di euro l’anno (quasi lo 0,1% del PIL) ed un incremento complessivo dell’interscambio con il Canada pari a quasi il 25%. L’Italia è il terzo partner commerciale europeo del Canada, dopo Regno Unito e Germania: nel 2016 le esportazioni italiane verso il Paese nordamericano sono aumentate dello 0,7% (+18,9% nel 2015), attestandosi intorno ai 3,7 miliardi di euro. Secondo le previsioni di SACE, la dinamica positiva proseguirà nel quadriennio 2017-2020 grazie ad una crescita media annua del 4,9%, trainata dalla domanda per meccanica strumentale, alimentari e bevande, chimica e abbigliamento.
In sostanza, il CETA rappresenta un’opportunità di crescita sia per l’Italia che per l’UE verso cui l’opinione pubblica, però, nutre una certa diffidenza. Il vero rischio è quindi che le imprese e gli stakeholder interessati non colgano a pieno i vantaggi di questo accordo, sprecando un’interessante opportunità di crescita. In questo senso è importante continuare a promuovere gli sforzi che a livello nazionale, come Sistema Paese, e a livello comunitario, l’Italia sta mettendo in campo in favore dell’accordo.


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