Nella giornata di giovedì 27 ottobre, è stato raggiunto l’accordo tra le rappresentanze istituzionali del Belgio per sbloccare il veto posto dai deputati della Vallonia sulla ratifica finale dell’Accordo Economico e Commerciale Globale (CETA) tra Unione Europea e Canada. Decisiva è stata una dichiarazione vincolante, già trasmessa alla Presidenza del Consiglio Europeo, alla Commissione e al Comitato dei Rappresentanti Permanenti, che ha rassicurato la regione belga in merito alla giurisdizione pubblica dei possibili contenziosi tra governi e aziende.
Tra oggi e domani, il Parlamento belga dovrà dunque deliberare la sua adesione e dare il via libera alla conclusione dell’accordo, a due anni di distanza dalla chiusura dei negoziati per la definizione dei termini del trattato.
Dopo aver visto arenarsi il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP), ossia il discusso accordo di libero scambio tra Unione Europea e Stati Uniti, saltato alla fine dello scorso mese di agosto, la roadmap degli obiettivi fissati in ambito commerciale dalla Commissione Juncker ha così evitato in extremis la debacle di un nuovo fallimento negoziale. In estate, il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel aveva chiaramente affermato che «come europei non possiamo accettare supinamente le richieste americane». In particolare, i critici del TTIP ponevano due questioni principali di forte perplessità: i meccanismi di regolazione processuale nelle eventuali contese tra governi e aziende, e i potenziali eccessi di deregolamentazione a svantaggio dei consumatori, soprattutto nell’ambito dell’industria farmaceutica e di quella alimentare.
Molto più facilmente superabile, logicamente, l’ostacolo vallone sull’accordo euro-canadese rispetto al veto tedesco sulla conclusione dell’accordo euro-statunitense. Questa volta, di cosa si tratta nello specifico? E quali sono le condizioni generali che stanno invece per accendere il semaforo verde al CETA?
I punti di forza sottolineati da Bruxelles mettono in campo:
1. Il precedente costituito dall’analogo accordo tra l’Unione Europea e la Corea del Sud che, dal 2011, anno della sua entrata in vigore, ha generato un aumento delle esportazioni europee verso il Paese asiatico del 55% per quanto riguarda le merci e del 40% nei servizi, per un volume di interscambio che ha raggiunto quota 90 miliardi di euro nel 2015, ed un risparmio di 2,8 miliardi di euro grazie alla soppressione o alla riduzione dei dazi doganali;
2. Le previsioni, ritenute molto affidabili, di un ulteriore stimolo al commercio e agli investimenti;
3. La forza e la credibilità del Canada come decima economia mondiale e grande produttore mondiale di materie prime.
La riduzione dei dazi sui prodotti industrali tra Unione Europea e Canada sarà progressivamente cancellata sino a scomparire del tutto tra sette anni, per un risparmio complessivo previsto intorno ai 600 milioni di euro. Allo stesso modo, anche l’export dei prodotti agro-alimentari europei verso il Canada risulterebbe facilitato da un simile processo di deregolamentazione ma, al contempo, tutelato da apposite norme a garanzia dei prodotti tipici grazie all’istituto delle indicazioni geografiche (IG), come ad esempio Grana Padano, Roquefort, olive Elia Kalamatas o Aceto balsamico di Modena.
Sul piano geopolitico, essendo ancora il Canada uno dei sedici reami del Commonwealth britannico, il CETA potrebbe inoltre giocare un ruolo veicolare per la definizione di un accordo tra Unione Europea e Regno Unito che trasformi l’uscita secca di Londra, sancita dalla Brexit, in un “atterraggio morbido” salvaguardando, pur nella separazione, le buone relazioni tra le parti.
Oltre al fatto che l’economia canadese, secondo la stessa Banca del Canada, è prevista in crescita soltanto dell’1,1% per la fine di quest’anno e di appena il 2% per i prossimi due, restano le perplessità da parte di alcuni osservatori e di segmenti dell’opinione pubblica europea in merito agli effettivi benefici dell’accordo e al dubbio vallone, per ora sciolto, sui reali poteri della corte pubblica che sarà chiamata a pronunciarsi nei contenziosi tra i governi e le multinazionali.
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