Emmanuel Macron ha probabilmente convinto di più imprese e risparmiatori, spaventati dal progetto di uscita dall’Eurozona prefigurato da Marine Le Pen. Più che il contrasto all’immigrazione clandestina e la lotta al terrorismo – problemi concreti e veri punti di forza del Front National – potrebbe essere stato proprio il tema dell’Europa ad aver deciso la partita finale nella corsa all’Eliseo. Il costo di un’eventuale Frexit, sicuramente ben più alto rispetto alla Brexit, sembra invece aver intimorito molto meno chi, almeno a prima vista, avrebbe poco o nulla da perdere da una Francia senza Europa, come operai, disoccupati e giovani delle province più depresse.
Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Francia si conclude esattamente con le stesse aspettative con sui si era chiuso il primo. Il candidato favorito, il liberale Emmanuel Macron, ha trionfato, ottenendo il 66,1% dei voti, e ha sconfitto nettamente Marine Le Pen, che si è invece fermata al 33,9%. Dopo il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea del Regno Unito e le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, i sondaggisti e gli esperti hanno fatto ricorso alla massima cautela, affinando quegli strumenti statistici che nel recente passato avevano fallito clamorosamente le previsioni, creando un vero e proprio shock in Occidente e mettendo seriamente in discussione la capacità degli addetti ai lavori di sondare gli umori della società.
Stavolta, tutto è andato secondo copione. Forse addirittura oltre quanto si era prefigurato. La prima conferma è arrivata dal dato dell’affluenza, il più basso per un ballottaggio presidenziale dal 1969. L’astensione ha toccato quota 25,3% e tra i francesi che hanno deciso di disertare le urne c’è quasi sicuramente anche chi, da sinistra, pur condividendo l’opposizione alle politiche di Bruxelles e la paura per il futuro, non se l’è evidentemente sentita di apporre una croce sopra un cognome che evoca ancora troppi fantasmi del passato.
Marine Le Pen ce l’ha messa tutta per sdoganare il suo partito da quell’etichetta di Super Facho che per molti anni la stampa e la società civile francesi hanno spregiativamente attribuito al padre Jean-Marie, ma non è bastato ad avere la meglio su un candidato come Macron, che aveva ricevuto un fortissimo endorsement dalla maggior parte degli organi di informazione mainstream e, soprattutto, che, da centrista indipendente, ha catalizzato su di sé il voto dell’elettorato moderato, tanto tra i socialdemocratici delusi dal presidente uscente François Hollande quanto tra i repubblicani, privati dello sconfitto François Fillon.
Eppure, nell’insuccesso, il Front National ha comunque ottenuto molti milioni di voti. Un’enormità, se si pensa che quindici anni fa, al ballottaggio che vedeva contrapposti Jaques Chirac e Jean-Marie Le Pen, l’anziano padre di Marine raccolse appena 5,5 milioni di preferenze, pagando a caro prezzo l’ostracismo di un Paese che si era quasi interamente sollevato contro di lui, dopo aver appreso con sdegno del suo inatteso accesso alla sfida finale. Nel 2002, difatti, tra il primo ed il secondo turno, i consensi per Jean-Marie Le Pen aumentarono soltanto del 15%, mentre quelli per Chirac addirittura quintuplicarono, sfondando quota 25,5 milioni, grazie all’indicazione di voto dichiarata da parte della quasi totalità delle forze di sinistra.
Stavolta, invece, Macron ha poco più che raddoppiato il consenso ottenuto al primo turno, passando da 8,65 a 20,75 milioni di voti, mentre la Le Pen ha incamerato 10,64 milioni di voti contro i 7,67 del primo turno, guadagnando quasi il 39% in due settimane. Insomma, da un lato il Front National è indubbiamente cresciuto, allargando il suo elettorato di riferimento, mentre dall’altro sembra esserci stata una risposta anti-lepenista meno forte che in passato, anche alla luce della libertà di voto lasciata ai propri elettori dal candidato della sinistra radicale (La France insoumise) Jean-Luc Mélenchon.
Dunque, da dove arrivano quei 2,97 milioni di elettori che Marine Le Pen ha guadagnato al secondo turno? In primo luogo ha avuto un peso preponderante l’appoggio ufficiale, isolato nel panorama politico nazionale, di Nicolas Dupont-Aignan, il gollista euroscettico uscito dalla destra repubblicana nel 2008, che due settimane fa aveva annunciato di voler indirizzare il flusso dei suoi 1,69 milioni di elettori del primo turno verso la candidata del Front National. Resta incerta, invece, la provenienza politica degli altri 1,28 milioni di elettori. Non aiuta ad ipotizzare qualcosa di concreto il fatto che François Fillon avesse descritto Marine Le Pen nei termini di un «nemico della Repubblica», consigliando senza esitazioni il voto per Macron ai 7,21 milioni di francesi che avevano scelto il leader di centro-destra al primo turno.
Da domani, l’attenzione della Francia si concentrerà sulle elezioni legislative dell’11 giugno prossimo, con il ballottaggio previsto la domenica successiva, per la composizione del Parlamento e, dunque, la formazione di una maggioranza di governo. En Marche!, la formazione costruita in pochi mesi da Macron, potrebbe non avere i numeri necessari presso l’Assemblea Nazionale, il primo – e decisivo – ramo del Parlamento francese. Ricorrere ad una coalizione non sarà semplice perché il movimento del presidente eletto è comunque un soggetto politico personalistico, indissolubilmente legato al nome di un candidato indipendente, fuoriuscito dal Partito Socialista Francese nel 2009 e già ministro dell’Economia nell’esecutivo guidato dall’ex primo ministro Manuel Valls.
I socialisti, dal canto loro, sono in caduta libera e, stando ai sondaggi, all’Assemblea Nazionale otterrebbero tra i 28 e i 43 seggi contro i 288 che detengono attualmente. La coalizione di centro-destra (Repubblicani+UDI) potrebbe conquistare tra i 200 e i 210 seggi, ma difficilmente accetterà di formare un governo di coalizione. Molto probabile, dunque, un più canonico scenario di coabitazione. Tuttavia resta da capire con chi il neoeletto presidente dovrà, appunto, coabitare. Di certo, non con il Front National, accreditato tra i 15 e i 25 seggi, né col Front de Gauche di Mélenchon, che dovrebbe fermarsi a 8 deputati.
Passando dai numeri alla politica reale, il programma di Emmanuel Macron è un insieme di molte cose: vicino all’approccio lib-lab della cosiddetta Terza Via lanciata negli anni Novanta da Bill Clinton e Tony Blair, il nuovo presidente francese ha in realtà una formazione filosofica, essendo stato addirittura assistente di Paul Ricoeur, padre della fenomenologia ermeneutica, scomparso nel 2005. Ha poi seguito un percorso di perfezionamento in scienze politiche e amministrative che gli ha consentito di assumere incarichi tecnico-gestionali negli apparati statali e contemporaneamente di fare carriera in Rothschild & Cie Banque, una banca posseduta dalla holding finanziaria francese Rothschild & Co.
Il programma con cui si è presentato alle elezioni è un insieme pragmatico di istanze che pescano da destra e da sinistra, senza un corpus teorico preciso che possa far parlare di una vera collocazione nell’area del socialismo liberale. Al fianco dell’aumento dei salari e dei posti di lavoro, compaiono obiettivi quali la semplificazione, gli sgravi fiscali e il sostegno alle imprese. Un connubio che avrebbe sicuramente un senso, se non fosse liturgicamente ricondotto al leitmotiv della sua campagna elettorale, cioè un europeismo sostanzialmente acritico, che parla troppo vagamente di cambiamenti senza intaccare quei parametri fondamentali che andrebbero seriamente riformati per evitare che l’Unione Europea imploda nei prossimi anni.
La crescente polarizzazione tra europeismo ed antieuropeismo, liberalismo e populismo, cosmopolitismo e nazionalismo sta costruendo una narrazione sempre più immaginaria e distante dalla realtà, contribuendo ad aggravare in tutta Europa tre tipi di squilibri economico-sociali molto pericolosi, in qualche modo intrecciati tra loro:
– Il divario (reddituale) tra le fasce benestanti e quelle meno abbienti
– Il divario (fiscale e tecnologico) tra le grandi e le piccole e medie imprese
– Il divario (urbanistico e infrastrutturale) tra la metropoli e la provincia
Se pensiamo che a Parigi Emmanuel Macron ha conquistato quasi il 90% dei consensi, la mente va subito al 60% ottenuto dal fronte pro-UE a Londra nel referendum del giugno scorso, ma soprattutto al 92,8% conseguito da Hillary Clinton a Washington DC in occasione delle ultime presidenziali americane. Le elezioni federali tedesche potrebbero fornirci ancora più indizi in questo senso, ma ormai appare sempre più chiaro che la vera Europa a due velocità rischia di essere questa.
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