Siria. Evitare polarizzazioni ed estremismi per scongiurare la catastrofe e mettere in sicurezza il Mediterraneo

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di Andrea Fais

Come tra l’agosto e il settembre del 2013, il mondo si ritrova ancora una volta a fare i conti con l’ipotesi di un imminente attacco degli Stati Uniti, sostenuti per l’occasione da Gran Bretagna e Francia, nei confronti della Siria. Anche allora, il paventato intervento della coalizione anglo-franco-americana si prefiggeva l’obiettivo di punire il presidente siriano Bashar al-Assad, accusato di aver utilizzato armi chimiche durante il bombardamento dell’area di Ghūṭa, non lontano da Damasco.
Stavolta è toccato ad un’altra città del Rif di Damasco, Dūmā, fare da diapason globale del conflitto. Qui, secondo le accuse dei nuovi inquilini della Casa Bianca, del n. 10 di Downing Street e dell’Eliseo, le milizie di Assad, appoggiate sul campo da forze russe, iraniane e Hezbollah libanesi, si sarebbero rese responsabili di un nuovo attacco chimico nei confronti della popolazione civile, durante un intervento di sfondamento delle linee dei gruppi ribelli islamisti.
In occasione dell’attacco del 2013, l’ONU concluse che non fu possibile attribuire le responsabilità dell’utilizzo di armi non convenzionali. Pesanti dubbi erano sorti già da tempo, sulla base delle dichiarazioni del giudice Carla Del Ponte, membro della Commissione ONU per i crimini in Siria, quando nel maggio 2013, oltre tre mesi prima dell’episodio discusso, affermò in un’intervista di «aver potuto raccogliere alcune testimonianze sull’utilizzo di armi chimiche, e in particolare di gas nervino, ma non da parte delle autorità governative, bensì da parte degli oppositori, dei resistenti». La Commissione di cui faceva parte smentì subito queste conclusioni personali, sostenendo in ogni caso di non essere in grado di giungere a prove certe e dunque di attribuire con sicurezza le responsabilità per l’utilizzo di armi chimiche.
Anche in questo caso, fin’ora, malgrado le accuse e l’annuncio di Emmanuel Macron, nessuno è stato in grado di dimostrare non il generico utilizzo di agenti nervini, cui più volte si è drammaticamente ricorso in questi anni di guerra, ma chi ne abbia effettivamente fatto uso tra le due parti in guerra.

L’ARSENALE SMANTELLATO. O NO? Scongiurato un catastrofico scontro tra Russia e Stati Uniti, l’episodio del 2013 aveva aperto un importante canale di trattativa tra le due potenze che, in accordo con Damasco, decisero di smantellare l’intero arsenale chimico da anni a diposizione delle forze governative siriane. Nell’agosto 2014, il Dipartimento alla Difesa degli Stati Uniti annunciò ufficialmente l’avvenuta bonifica delle armi contestate e la loro completa distruzione, un’operazione che, come disse Barack Obama, «porta avanti il nostro obiettivo comune di garantire che il regime di Assad non possa utilizzare il suo arsenale chimico contro il popolo siriano».
Certo, può darsi che la Siria a quel tempo non abbia consegnato tutto quanto era in suo possesso. Come può darsi che nel frattempo si sia rifornita di nuovi agenti chimici presso qualche altro Paese della regione. Ma siamo nel campo di mere supposizioni, ipotesi, non di rado azzardate, che rimbalzano nei social network fra commenti, tweet e post, alimentando quel meccanismo che in inglese viene definito come confirmation bias, traducibile grossomodo come “pregiudizio di conferma”, ovvero una dinamica in base a cui l’utente della rete va in cerca di articoli o materiali da acquisire non per informarsi ma semplicemente allo scopo di confermare e rafforzare la propria opinione.
Da qui possono poi nascere le cosiddette echo-chambers, cioè le “casse di risonanza”, come i gruppi di Facebook ma non solo: vere e proprie camere virtuali dove ogni utente della rete cerca e trova altri utenti che la pensano allo stesso modo, innescando un ulteriore meccanismo che conforta e consolida la propria opinione iniziale, mettendola a confronto soltanto con opinioni simili. La polarizzazione è così compiuta, dividendo in compartimenti stagni chi, da migliaia di chilometri di distanza dai teatri di guerra, vorrebbe, in base alle proprie simpatie personali, la testa di Assad, di Erdoğan o di qualsiasi altro leader in campo.

POLARIZZAZIONE E FAKE NEWS. Una fortissima polarizzazione è avvenuta durante il dibattito elettorale sul referendum in Gran Bretagna per la permanenza o l’abbandono dell’Unione Europea da parte di Londra, oppure in occasione delle ultime presidenziali statunitensi nella sfida tra Donald Trump e Hillary Clinton. L’opinione pubblica occidentale si è improvvisamente divisa in due grandi tronconi, quello dei liberal [definizione che negli Stati Uniti indica la sinistra democratica, mentre in Europa guarda più al centro] e quello dei populisti [definizione generica e dispregiativa, slegata dall’omonimo movimento sorto in Russia nel XIX secolo]. Due bandiere divenute di fatto trasversali alle nazioni, due sensibilità che si sono via via estese, quasi per osmosi ideologica, in tutta l’area euro-americana, anche e soprattutto grazie ad un massiccio utilizzo dei social: da una parte i sostenitori di Hillary Clinton e, per simmetria, di Emmanuel Macron, Matteo Renzi o Justin Trudeau; dall’altra i sostenitori di Trump e, per simmetria, di Marine Le Pen, Matteo Salvini o Viktor Orbán.
Il compito di cui l’informazione dovrebbe farsi carico è l’inchiesta, l’approfondimento oltre la polarizzazione e l’autoconvincimento, spesso alla base della diffusione delle famigerate fake news di cui molto si parla da due anni a questa parte, specie a seguito della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ma che in realtà minacciano da decenni il sacrosanto principio della “verità sostanziale dei fatti”. Invece, pur di conquistare visualizzazioni, condivisioni e like [il cosiddetto clickbaiting], tanta, troppa informazione generalista, pur senza scadere nel perverso meccanismo delle bufale, pare essersi adeguata, per inerzia o per convenienza, alla situazione, tuffandosi a sua volta nel mare della polarizzazione.

EVITARE GLI ESTREMISMI. Di fronte ad una situazione estremamente critica e complessa come quella siriana, pietra angolare di una situazione regionale ancor più complessa ed estesa come quella mediorientale, non può esserci spazio per estremismi o fanatismi di alcun colore. Il rischio di un’estensione del conflitto è troppo elevato e l’improvvisazione con cui le tre principali potenze della NATO stanno cercando di costruire un impianto accusatorio nei confronti di Assad alimenta seri dubbi sulle reali intenzioni di Trump, May e Macron, tre leader che hanno preso il posto rispettivamente di Obama, Cameron e Hollande vincendo campagne elettorali molto tese e dense di polemiche interne, eppure oggi in perfetta continuità coi loro predecessori per quanto riguarda i temi più stringenti della politica estera.
Personalità politiche di orientamenti e sensibilità diverse tra loro sembrano compattarsi con agghiacciante scioltezza di fronte ad ipotesi spaventose, come un attacco militare alla Siria [che equivarrebbe ad un attacco militare a Russia e Iran] o l’assassinio pianificato di Assad e dei suoi principali collaboratori, come se il caso libico del 2011 non avesse già mostrato a dovere quello che potrebbe accadere in seguito alla detronizzazione violenta di un leader, specie in contesti di potere familistici fortemente ramificati come quelli arabi.
Bene ha fatto Angela Merkel a chiarire, come già avvenuto per la Libia, la sua intenzione di chiamare fuori la Germania da qualsiasi azione militare nei confronti della Siria. Benino, con riserva, ha fatto Paolo Gentiloni a puntualizzare un concetto analogo per l’Italia, sebbene annunciando di mettere comunque a disposizione le nostre basi per un eventuale attacco. Proprio la Germania e l’Italia, le potenze “meno atlantiche” dell’Alleanza Atlantica, pagherebbero probabilmente il prezzo più alto da uno scontro aperto con Damasco e, dunque, con Mosca e Tehran, due partner strategici di Roma e Berlino, non solo per quanto riguarda il settore energetico.

IL NON-RUOLO DELL’ITALIA. Non si tratta tuttavia di anteporre egoistici interessi nazionali ai diritti umani, come qualcuno potrebbe obiettare, ma di armonizzare le relazioni diplomatiche sul Mediterraneo rispettando, se ha ancora un senso, il diritto internazionale e la nostra Costituzione. Non sono pochi i politici italiani ancorati ad una visione del mondo riduttiva ed obsoleta, finita nel secolo scorso e non più rispondente ai criteri di questo secolo, che continuano a predicare quasi dogmaticamente la necessità del nostro Paese di agire in piena conformità e senza discussioni nel quadro dell’Alleanza Atlantica, pena «schierarsi col dittatore» o «con Putin».
Questo manicheismo geopolitico – che per altro non ha mai fatto parte della politica estera della Prima Repubblica, ben più attenta, multiforme e ponderata nelle sue decisioni strategiche – è evidentemente sempre meno compatibile con gli interessi nazionali ed europei, tanto più sul Mediterraneo, dove l’Italia è letteralmente immersa sino al collo, avendo tutte le carte in regola per svolgere appieno un proprio strategico ruolo di ponte economico, commerciale e logistico tra la Mitteleuropa e l’area MENA, un ruolo purtroppo ancora ostacolato dai venti di guerra.


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