A cura della Redazione
Uno dei più influenti gruppi industriali statunitensi sta chiedendo con urgenza all’Amministrazione Biden di riprendere i negoziati con la Cina e di tagliare i dazi ai beni cinesi rimasti in vigore dopo l’avvio della dannosa guerra commerciale tra i due Paesi. A riportarlo sono Paul Mozur e David McCabe in un articolo pubblicato oggi sul New York Times.
Si tratta di rappresentanti di diversi settori, dagli agricoltori di patate alla farmaceutica passando per i produttori di microchip, che giovedì hanno inviato una lettera al Dipartimento del Tesoro e al Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, chiedendo un’«azione tempestiva» per far fronte agli «onerosi» dazi. Gli imprenditori hanno inoltre esortato la Casa Bianca a lavorare con il governo cinese per garantire che esso adempia agli impegni assunti nel quadro della tregua raggiunta con l’Amministrazione Trump, siglata all’inizio del 2020 nel quadro della Fase 1 dei nuovi negoziati.
La lettera denuncia che «a causa dei dazi, le aziende statunitensi affrontano costi aumentati per produrre e fornire servizi sul mercato interno, rendendo l’esportazione di questi beni e servizi meno competitiva all’estero». Gli imprenditori ricordano che la Cina ha rispettato alcuni degli impegni assunti nell’ambito dell’accordo commerciale, tra cui nuove misure per aprire il proprio mercato alle istituzioni finanziarie statunitensi.
L’unico modo – sostengono – per far sì che il Paese asiatico adempia anche agli impegni rimasti in sospeso in altri ambiti è quello di riaprire i negoziati: «Esortiamo con forza l’Amministrazione a lavorare con il Governo cinese per aumentare gli acquisti di beni americani durante quel che resta del 2021 ed attuare tutti gli impegni strutturali previsti dall’accordo entro il 15 febbraio 2022, giorno del suo secondo anniversario».
Fin’ora, Joe Biden non soltanto ha sostanzialmente confermato la linea intransigente adottata dall’ex segretario di Stato Mike Pompeo, ma l’ha addirittura inasprita estendendo l’elenco delle aziende cinesi con cui cittadini e imprese statunitensi non possono fare affari, poiché ritenute vicine al governo o ad ambienti militari. Come ricorda il New York Times, lo scorso 15 giugno Biden aveva inoltre annunciato la formazione di un consiglio commerciale e tecnologico con l’Unione Europea per contenere l’influenza cinese attraverso il coordinamento delle politiche digitali tra le due sponde dell’Atlantico.
Lo scorso 26 luglio, la vicesegretaria di Stato americana Wendy R. Sherman era volata a Tianjin, dove aveva incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Il vertice aveva evidenziato qualche piccolo passo in avanti pur mantenendo le distanze su questioni giudicate fondamentali dalla parte statunitense, come i diritti umani a Hong Kong, nel Tibet e nello Xinjiang, dove Washington accusa Pechino di presunte violazioni ai danni della minoranza musulmana degli uiguri, e le operazioni militari nel Mar Cinese Meridionale.
La parte cinese aveva tuttavia seccamente smentito qualsiasi accusa relativa alle discriminazioni delle minoranze e alle violazioni dei diritti umani, ribadendo che Hong Kong, Tibet e Xinjiang sono parti inalienabili della Repubblica Popolare Cinese e che il diritto internazionale riconosce la piena sovranità cinese sulle acque coinvolte nelle dispute (i due arcipelaghi delle Isole Nansha/Spratly e delle Isole Xisha/Paracel). In questo senso, Wang Yi era stato piuttosto chiaro: ingerenze o attacchi all’integrità territoriale della nazione non saranno tollerati.
Negli ultimi due anni e mezzo, l’associazione Americans for Free Trade, un vasto gruppo di rappresentanze del mondo industriale e camerale statunitense, ha chiesto più volte la fine della guerra commerciale, lamentando le gravi ripercussioni dei dazi sull’economia americana. Ora, le richieste dirette ed urgenti di una parte importante della comunità imprenditoriale statunitense aprono un nuovo fronte interno che Biden non può trascurare.
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