Stati Uniti. La MAGAnomics sembra contraddirsi, ma la minaccia di dazi potrebbe essere solo una tattica negoziale

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di Heather Long
[The Washington Post]


C’è un’evidente cambiamento di prospettiva che emerge nella politica economica del presidente Trump in questo suo secondo anno di mandato. L’inquilino della Casa Bianca sta infatti muovendo dalla priorità posta su un’agenda favorevole alle imprese, fatta di tagli fiscali e di deregulation, a quella su un’agenda populista, fatta di barriere commerciali e di restrizioni all’immigrazione. In altre parole, si sta allontanando dall’agenda della corrente repubblicana principale.

Per chi ha conosciuto Trump nel corso dei decenni, non è una sorpresa. Il presidente ha per molto tempo sostenuto che la Cina – ed altri Paesi – stessero danneggiando gli Stati Uniti sul piano commerciale e che questi Paesi dovessero essere affrontati. «La gente è stanca di guardare gli altri popoli approfittarsi degli Stati Uniti», disse a Larry King della CNN nel 1987. Trent’anni dopo, Trump ha fatto della rinegoziazione degli accordi commerciali e delle limitazioni all’immigrazione i punti centrali della sua campagna elettorale, tanto da suscitare l’entusiasmo degli operai che lo hanno votato.

Tuttavia, per l’ambiente repubblicano di Wall Street, il protezionismo di Trump costituisce una scelta sgradita, e si sta affiancando ad un periodo di grande incertezza per i mercati e le aziende. C’era l’aspettativa – o almeno la speranza – tra alcuni leader del mondo imprenditoriale che Trump non avrebbe preso nessuna decisione che potesse mettere a repentaglio un aumento della crescita economica in corso, ma ora queste stesse personalità non ne sono più sicure.

«Se ci infiliamo in una guerra commerciale, anche se piccola, questa ostacolerà la crescita. E potete già vedere dalla reazione del mercato azionario, che alla gente questo non piace», ha affermato l’economista Art Laffer, consigliere non ufficiale di Trump che ha aiutato il presidente a rendere più convincente il piano fiscale approvato lo scorso anno. Gli uomini d’affari non sanno come interpretare questa nuova fase della “MAGAnomics” e non hanno la stessa influenza sul “cerchio magico” dei consiglieri di Trump come avveniva quando l’ex dirigente di Goldman Sachs Gary Cohn ed il segretario della Casa Bianca Rob Porter, un repubblicano più tradizionale, lavoravano a stretto contatto col presidente.

Il nuovo “cerchio magico” dei consiglieri economici di Trump spesso vede i protagonisti contraddirsi l’uno con l’altro, creando ancora più confusione. Venerdì scorso, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin ha sostenuto che c’è il «rischio» di una guerra commerciale, mentre il nuovo direttore del Consiglio Economico Nazionale Larry Kudlow continuava a sottolineare che i negoziati erano in corso e che lo stallo era probabilmente vicino ad una soluzione, evitando così che i dazi entrassero in vigore.

I dirigenti aziendali, che solo qualche settimana fa ritenevano di aver contenuto con successo gli istinti di Trump sull’immigrazione e sul commercio, adesso non hanno più la certezza di cosa potrebbe accadere o di cosa tutto ciò comporterà all’economia. Uno sguardo al mercato azionario statunitense rileva che dopo un aumento di quasi il 19% registrato lo scorso anno, l’indice S&P 500 [l’indice che rileva l’andamento delle prime 500 società statunitensi per capitalizzazione, ndt] fin’ora è in rosso dal momento gli investitori temono una guerra commerciale tra le due principali economie mondiali. L’indice Dow Jones è caduto vittima di una «correzione». «L’unica cosa su cui Trump è stato coerente per decenni è quella di non credere nel libero commercio. Di fondo, è sempre rimasto un protezionista», ha detto Joe Brusuelas, capo economista presso la società di revisione RSM.

Gli imprenditori avevano sperato che l’attenzione di Trump al mercato azionario in crescita lo avrebbe fatto desistere dal protezionismo, che spaventa gli investitori. Avevano convinto Trump a concentrarsi su una revisione epocale del regolamento fiscale a dicembre ed applaudito alla sua riduzione normativa, accostandolo a Ronald Reagan, ma Trump ha insistito sul fatto che il tema del commercio dovesse restare in agenda.

«L’amministrazione Trump è meglio descrivibile come ‘destra populista’», ha affermato Michael Strain, direttore degli studi di politica economica presso il “destreggiante” American Enterprise Institute. Parzialmente sorprendente in relazione alla svolta populista di Trump di quest’anno è che l’economia americana sta andando bene. Pochi nel mondo delle imprese credono che Trump potrebbe mai fare qualcosa per mettere a repentaglio le aziende.

La crescita degli ultimi tre trimestri del 2017 ha raggiunto il picco del 3% – una soglia che i funzionari governativi hanno spesso sponsorizzato come il loro obiettivo – e l’economia registra l’aumento dell’occupazione ad un ritmo stabile. L’ottimismo delle piccole imprese e dei consumatori è ai massimi degli ultimi anni, e i posti di lavoro nel settore manifatturiero sono in crescita. Da quando Trump ha assunto il suo mandato, l’economia ha segnato un aumento di 263.000 posti di lavoro, un buon segnale dopo che l’industria aveva subito tagli occupazionali nel 2016.

Chad Moutray, capo economista presso l’Associazione Nazionale dei Produttori Manifatturieri, attribuisce questi ultimi successi nel settore ai tagli fiscali, alla riforma normativa e alla ripresa economica globale. Mentre molti economisti e grandi imprenditori stanno esortando Trump a non disperdere gli effetti della ripresa, il presidente e i suoi più importanti consiglieri sostengono che qualsiasi colpo subito nel breve termine da uno scontro commerciale o qualsiasi cambiamento in tema migratorio varrà comunque la pena di essere affrontato dal momento che arrecherà maggiori benefici nel lungo periodo.

«Vogliamo vendere più merci nel resto del mondo. Questa è un’opportunità straordinaria per le aziende americane se saranno trattate equamente», ha detto Mnuchin alla CNBC venerdì scorso. C’è un largo consenso nell’ambiente politico che qualcosa debba essere messo in chiaro con la Cina, ma i dazi preoccupano molti, soprattutto nel Partito Repubblicano. I rischi sono alti se la strategia dovesse fallire. Se la Cina avrebbe più da perdere dal punto di vista economico nel caso di una guerra commerciale con gli Stati Uniti, il presidente cinese Xi Jinping, tuttavia, ha già affrontato la sua rielezione, potendo dunque evitare le pressioni della società e delle imprese che invece Trump sta affrontando in questa fase.

Gli Stati Uniti si trovano anche a dover fare i conti con un vasto debito pubblico, soprattutto dopo i tagli alle tasse ed l’elevato budget recentemente approvato dal Congresso. Trump non potrà stimolare ulteriormente l’economia, in ogni caso, e avrà bisogno di investitori esteri disposti ad acquistare il debito statunitense.

Al momento, il carico di sanzioni è soltanto un insieme di minacce. La Cina e gli Stati Uniti stanno trattando e le due nazioni hanno a disposizione almeno un mese – probabilmente anche di più – per raggiungere un accordo ed evitare uno scenario catastrofico che potrebbe avere impatti dannosi su entrambe le economie. Tuttavia, in una sola settimana, Trump è passato dal minacciare dazi sulle importazioni cinesi per 50 miliardi di dollari a minacciarne per 150 miliardi. La Cina ha risposto avvisando che è pronta a tassare circa il 40% delle merci statunitensi dirette verso il proprio mercato.

Sono ancora valide le possibilità che la disputa commerciale finisca con alcune piccole o modeste concessioni da parte cinese a Trump prima che le sanzioni entrino pienamente in vigore. Secondo Laffer, che continua a confrontarsi con il presidente ed i suoi consiglieri economici, Trump gli avrebbe riferito che la minaccia di sanzioni è soltanto una tattica negoziale. «Non credo che dovremmo agitarci troppo sul tema dei dazi. Si tratta di una pessima politica economica, ed entrambe le parti hanno troppo da perdere trasformando queste schermaglie in una guerra commerciale senza quartiere», sostiene David Kelly, capo stratega globale di J.P. Morgan Asset Management.

Eppure, i rischi maggiori per l’economia statunitense in questa fase sono l’inflazione, un’agitazione del mercato azionario ed un ripiegamento della spesa da parte di imprese o consumatori. Approvare i dazi accrescerebbe tutti e tre questi rischi. In una guerra commerciale, i consumatori statunitensi vedrebbero probabilmente aumentare i prezzi sui televisori, sulle calzature e su altri beni Made in China presenti nei negozi, mentre il mercato azionario continuerebbe ad affondare e le imprese potrebbero decidere di non fare più tanti nuovi investimenti in fin dei conti, poiché non saprebbero come la questione dei dazi evolverebbe nei prossimi mesi.

I repubblicani certamente vogliono evitare qualsiasi danno all’economia in vista delle elezioni di metà mandato, ma se il partito dovesse subire una pesante sconfitta a novembre, Trump potrebbe tornare al protezionismo. A quel punto, con un Congresso a maggioranza democratica, il presidente dovrebbe combattere strenuemente per approvare qualsiasi cosa ed il commercio è un ambito in cui può legiferare velocemente e in gran parte per conto proprio. «Riguardo l’amministrazione Trump, il suo successo politico crescerà o diminuirà in base all’andamento dell’economia», ha detto Kudlow venerdì.


Traduzione a cura della Redazione
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