Ucraina. Al lavoro per un altro approccio: come uscirne, come ripartire e come ricostruire

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di Andrea Fais
[Direttore Responsabile]



Ad un mese e mezzo dallo sfondamento russo in Ucraina è ormai giunto il momento, anche per Scenari Internazionali, di cominciare ad occuparsi della crisi in corso. Lo faremo da qui in avanti con approfondimenti e, laddove possibile, interviste. L’obiettivo è comprendere le dinamiche in atto e le loro conseguenze economiche, inevitabilmente gravi e pesanti, ma anche le possibili evoluzioni future e gli spiragli di pace.

Non ci concentreremo eccessivamente sulle ragioni politiche e sulle manovre militari, come invece stanno facendo tanti colleghi della cronaca in questi giorni, perché chiaramente un periodico trimestrale non può restare al passo con le evoluzioni del teatro di guerra, pronto a cambiare in qualsiasi momento, da un’ora all’altra.

Questo ovviamente non ci impedirà di tornare indietro nel tempo, per cercare di capire com’è nata questa crisi, quali sono stati i motivi del definitivo fallimento degli Accordi di Minsk nel corso degli ultimi otto anni e cosa ha spinto Vladimir Putin ed il suo stato maggiore ad approvare e dare il via alla cosiddetta «operazione militare speciale» lo scorso 24 febbraio.

Eppure vorremmo focalizzarci soprattutto sul futuro, sugli sviluppi possibili, a partire dai negoziati, anche nell’auspicio che tutto si concluda nel più breve tempo, ripristinando pace, stabilità e crescita in Europa. Mentre nei talk show divampa lo scontro tra opinionisti e commentatori, non di rado purtroppo ridotto ad un ring di insulti e delegittimazioni reciproche, nel nostro piccolo andremo in profondità. Nessun sensazionalismo. Come sempre, per quanto ci riguarda, saranno la ragione e l’attenta osservazione della complessità a guidare il nostro lavoro.


COMPRENDERE? DIFFICILE E SCONVENIENTE

I cupi venti di guerra che spirano sul Vecchio Continente vengono ogni giorno pericolosamente alimentati da indiscrezioni non confermate e ipotesi da verificare, presentate ai lettori come notizie. Il furore ideologico che trasuda dalle principali piattaforme social si avvicina in modo sempre più preoccupante al tenore della propaganda dei due attori belligeranti. In questo crescente manicheismo geopolitico, sembra profilarsi all’orizzonte un clima da caccia alle streghe che potrebbe persino evocare i plumbei scenari distopici raccontati nel secolo scorso dalle feconde menti di Aldous Huxley e Ray Bradbury.

Cercare di andare oltre l’emotività del frangente e la comodità del politically correct sembra quasi percepito come un atto indisponente e addirittura sconveniente, da evitare per non perdere contatti, opportunità e persino amicizie. Per timore o conformismo, o per entrambe le cose, nel nostro Paese sta brutalmente prendendo piede l’abitudine ad accodarsi rapidamente alle opinioni più in voga del momento.

Controcorrente, in questo fiume in piena, noi continuiamo a credere al diritto-dovere di informare il lettore nel miglior modo possibile. Per questo riusciamo senza problemi ad ospitare articoliste e articolisti, spesso molto giovani, dalle più disparate sensibilità e opinioni politiche.

Non chiediamo loro di prendere posizione o riassumere le proprie opinioni personali ma semplicemente di studiare, approfondire e sintetizzare gli argomenti presi in esame affinché chi spende 8 euro per acquistare una copia di Scenari Internazionali non debba ridursi alla triste scelta tra recepire o rifiutare una tesi preconfezionata ma, al contrario, disponga degli strumenti per poter sviluppare una sua opinione e una sua visione delle cose.

Le testate giornalistiche – giova ricordarlo – non sono megafoni di questo o quel partito e le linee editoriali non sono linee politiche. Scenari Internazionali è sorta nel 2014 con una missione: cercare di capire e spiegare la complessità del nostro tempo. Non per semplice diletto o per un astratto esercizio di intellettualismo ma perché ritenevamo che in un mondo in rapido cambiamento gli italiani dovessero essere informati con un certo anticipo sulle dinamiche in atto.

L’inevitabilità della trasformazione in senso multipolare dell’ordine internazionale cominciò ad emergere già dal 2008, quando la grande crisi finanziaria partita dal mercato immobiliare statunitense innescò una spirale recessiva dai cui effetti a catena le economie occidentali non si sono mai pienamente riprese. Dopo oltre due secoli di sostanziale supremazia, le grandi nazioni e gli imperi sorti sul [o derivati dal] suolo del Vecchio Continente [compresi gli Stati Uniti] vedono messo pesantemente in discussione il loro consolidato primato geopolitico. Dagli altri lati del pianeta, invece, si fa sempre più forte la rivendicazione di una maggior sicurezza, di un maggior protagonismo e di una maggiore autorevolezza internazionale.

In questo quadro, le strade sono due. La prima vedrebbe noi occidentali accettare il cambiamento, conferire pari dignità alle potenze emergenti o riemergenti [non solo Russia e Cina] e metterci con loro attorno ad un tavolo per ridefinire [ovvero riformare, non stravolgere!] insieme le regole globali a tutti i livelli: geopolitico, diplomatico, finanziario e commerciale. La seconda, prima o poi, porterebbe inevitabilmente alla terza guerra mondiale. Tertium non datur.

Terzomondismo? Antimperialismo? Orientalismo? No. Stavolta non si tratta di aderire o meno ad un’ideologia o ad un’estetica militante. Dopo tutto, se si guarda bene fino in fondo, anche il Sessantotto [con le sue ramificazioni successive] fu un fenomeno intimamente occidentale. Oggi si deve piuttosto prendere atto di una realtà in divenire, che cambierà le cose come le abbiamo sin qui conosciute. La storia, in parole povere, farà il suo corso. Niente di nuovo.


CRONACA DI UNA GUERRA ANNUNCIATA

Nessuno, tra gli esperti, può davvero stupirsi o restare scioccato di fronte all’azione militare russa. Vladimir Putin è da oltre un ventennio impegnato nella ricostruzione di un ruolo forte all’interno dello spazio eurasiatico collassato con il crollo dell’URSS nel 1991. Spesso lo ha fatto attraverso complesse trame diplomatiche nel quadro della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), che hanno prodotto un’organizzazione di sicurezza come la CSTO (2002) ed un mercato comune come l’Unione Economica Eurasiatica (2015). In altri più rari casi, la strategia del Cremlino ha previsto anche interventi armati, come quello nel Nord della Georgia nel 2008 o in Crimea nel 2014.

Non è difficile immaginare che l’opzione militare per l’Ucraina sia stata preparata e predisposta già da molto tempo, in attesa di valutare l’andamento dei negoziati con Francia e Germania, nel quadro degli Accordi di Minsk II. Chi mastica un po’ di geopolitica sa che l’Ucraina è spaccata in due da una faglia storico-culturale, segnalata anche dal celebre politologo Samuel P. Huntington nel 1996, che separa non solo e non tanto ucrainofoni e russofoni [questo ormai è noto anche al mainstream] quanto piuttosto lo spazio d’influenza della NATO da quello russo.

Sul piano internazionale, da almeno vent’anni analisti politici, militari e deputati di quasi tutte le principali forze politiche del Paese – dai conservatori di Russia Unita al Partito Comunista della Federazione Russa, dai nazionalisti del Partito Liberal-Democratico ai socialdemocratici di Russia Giusta – guardavano con forte preoccupazione alla progressiva espansione della NATO ad Est, lamentando il mancato rispetto del principio di indivisibilità della sicurezza sancito negli Atti Finali di Helsinki (1975), nella Carta OSCE di Parigi (1990) e nell’Atto istitutivo sulle relazioni NATO-Russia (1997).

Sul piano regionale, poi, il paventato ingresso dell’Ucraina [e della Georgia] nella NATO ha sempre chiamato in causa la stabilità sul Mar Nero, su cui si affacciano sei Paesi: tre di questi sono membri NATO (Turchia, Romania e Bulgaria) e tre ne sono fuori (Russia, Ucraina e Georgia). È sufficiente conoscere qualche nozione di storia e geografia russa per sapere che quella è per Mosca la fondamentale via d’accesso ai mari caldi attraverso gli stretti più importanti del Mediterraneo orientale (Bosforo, Dardanelli e Suez). Minacciare i porti di Novorossijsk [affacciata direttamente sul Mar Nero] e Rostov [collegata al Mare d’Azov da un tratto del Fiume Don] equivale a minacciare il sistema logistico-commerciale del Paese.

Questo significa che qualunque altro leader al Cremlino avrebbe quasi certamente assunto la stessa decisione di Putin. Sbagliata per noi europei ma necessaria per i russi. Inutile, dunque, immaginare un presidente isolato e sul punto di essere spodestato. Da chi? Da un soggetto politico europeista, che in Russia praticamente non esiste e non ha alcuna rappresentanza istituzionale? Come? Fomentando dall’esterno una popolazione che, secondo un recente sondaggio di un istituto indipendente (Levada), ritenuto notoriamente affidabile dai colleghi occidentali, sostiene in gran parte (83%) l’operato del suo presidente?

Molto meno isolato di quanto appaia, Vladimir Putin lo è anche a livello internazionale. Soltanto Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Norvegia, Giappone e Svizzera hanno applicato nuove sanzioni contro Mosca. Moltissimi altri Paesi nel mondo, inclusi quei governi che hanno formalmente condannato l’aggressione russa in sede ONU, non hanno voluto in alcun modo compromettere le loro relazioni con Mosca.

Cina, India, Brasile, Pakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Sudafrica e molti altri attori di rilievo hanno respinto la richiesta di allineamento giunta dalle potenze occidentali, mostrando che il concetto di comunità internazionale che i nostri decisori politici hanno in mente è fondato su una visione anacronistica della politica estera. Una visione illusoria che porta, tra le altre cose, a ritenere che l’import di materie prime [non solo gas e petrolio] dalla Russia sia rapidamente ed agevolmente sostituibile sulla base di qualche improvvisata missione ministeriale in altri Paesi produttori.


IL NOSTRO COMPITO GIORNALISTICO

La sola via d’uscita è capire che non c’è altra strada al di fuori della soluzione politica. Russia, Ucraina, Unione Europa, Cina e Stati Uniti dovranno lavorare in concerto per garantire un cessate-il-fuoco rapido ed aprire un tavolo di negoziati per programmare il futuro di questo Paese, vittima del conflitto armato e di una relativa povertà diffusa che la guerra sta moltiplicando ma non creando dal nulla.

Secondo la Banca Mondiale, nel 2019, prima della pandemia, il 10,26% del PIL ucraino era generato dalle rimesse degli emigrati all’estero. Una cifra enorme, molto più prossima ai dati di Bosnia-Erzegovina (11,37%) ed Armenia (11,21%) che a quelli delle vicine Polonia (1,18%), Bielorussia (2,2%), Ungheria (3,03%) e Romania (3,25%). Nello stesso anno di riferimento, anche il PIL pro-capite del Paese ($ 3.661) era il più basso della regione con un dato nettamente inferiore a quelli di Ungheria ($ 16.735), Polonia ($ 15.732), Romania ($ 12.899) e Russia ($ 11.497), e poco più della metà di quello della Bielorussia ($ 6.837).

Stando ad un rapporto del Programma ONU per lo Sviluppo (UNDP) dello scorso 16 marzo, prima del 24 febbraio già 1,7 milioni di ucraini vivevano sotto la soglia di povertà (5,5 dollari al giorno). A causa della guerra, questo numero potrebbe presto salire sino ad 11,28 milioni di persone. Chiaramente si tratta di stime, non di dati certi. Stesso dicasi per i «18 anni di conquiste socio-economiche» che, sempre secondo l’UNDP, sarebbero stati persi con l’avvio delle ostilità.

Altra stima (da verificare) è quella relativa alle infrastrutture andate distrutte sotto i colpi dell’artiglieria e dell’aviazione russe, o durante i combattimenti tra i due fronti. Si parla, al momento, di un valore prossimo ai 100 miliardi di dollari.

I veri interrogativi che dovremmo porre a noi stessi e ai rappresentanti dei governi coinvolti, più o meno direttamente, nel conflitto sono dunque pochi ma fondamentali. Come uscire in tempi brevi da questa drammatica situazione? Come ripensare l’assetto territoriale del Paese, ormai inevitabilmente compromesso da otto anni di conflitto? Come costruire un nuovo e più avanzato tessuto socio-economico, in linea con standard di vita dignitosi e accettabili?

Turchia ed Ungheria sono fin’ora gli unici Paesi NATO ad aver aperto uno spiraglio di luce negoziale, defilandosi dalla “cobelligeranza passiva” [leggasi: invio di armamenti] dei principali alleati. Indubbiamente, il loro è un lavoro prezioso e potrebbe essere determinante. Un altro punto di forza risiede nella particolare posizione geografica dell’Ucraina, mai davvero valorizzata in questi trent’anni di indipendenza. Puntando sulla neutralità militare, Kiev avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo di ponte non soltanto tra Est ed Ovest, come aveva suggerito otto anni fa il decano del realismo Henry Kissinger, ma anche tra Nord e Sud, nel quadro del sistema logistico Mar Baltico – Mar Nero, ancora troppo poco sviluppato in termini infrastrutturali. Ora sarà possibile riprendere in mano i vecchi progetti?

Di tutto questo, se vorrete seguirci, ci occuperemo. Lo faremo in punta di piedi, cum grano salis, come da nostra prassi consolidata, nel pieno rispetto umano per tutte le vittime che hanno perso la propria vita sul terreno e per quelle che purtroppo continueranno a perderla sin quando le ostilità non cesseranno. Proprio perché l’elevato prezzo di sangue e sofferenza che le popolazioni di tutta l’Ucraina stanno pagando non sia vano, il primo compito di chi resta in vita è quello di capire in fretta come poter ricostruire e consolidare la pace.




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