Un 2020 spartiacque: entrare senza timori nel nuovo secolo o affondare nel passato

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di Andrea Fais
[Direttore Responsabile]



Il 2020 resterà certamente impresso sui libri di storia del futuro come l’anno della grande pandemia. Più del 2001, con gli scioccanti attentati terroristici dell’11 Settembre, e del 2008, anno della crisi finanziaria globale, i 365 giorni che hanno dato il via alla terza decade di questo secolo sono stati fin qui vissuti sotto una costante cappa di paura ed incertezza.

Europa e Stati Uniti, attori principali del mondo occidentale, si trovano ancora a dover fare i conti con preoccupanti ondate di contagio. Buona parte dell’America Latina, del Medio Oriente e l’India sono stati colti impreparati, registrando centinaia di migliaia di infezioni e decine di migliaia di decessi in pochi mesi. Miglior sorte è invece toccata all’Africa, forse aiutata dalle condizioni climatiche e da un’età media molto giovane, e alla regione Asia-Pacifico, dove sistemi politici e sociali anche molto diversi tra loro hanno messo in campo migliori capacità organizzative e provvedimenti efficaci riuscendo in tempi relativamente brevi a rallentare, ridurre e mantenere sotto controllo il contagio.

Le drammatiche immagini provenienti dalla metropoli cinese di Wuhan, dove tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio è stato per la prima volta identificato il SARS-CoV-2 responsabile della nuova malattia infettiva, resteranno per sempre scolpite nella memoria collettiva mondiale: le forze armate chiamate a sigillare e presidiare l’area urbana della città, raggiunta da team medici provenienti da ogni parte del Paese; i mastodontici interventi per realizzare in brevissimo tempo due ospedali provvisori e permettere il ricovero all’improvvisa mole di pazienti in cerca d’aiuto nelle prime settimane di emergenza; i blocchi di quartiere e i condomini organizzati per l’approvvigionamento delle scorte alimentari e i controlli all’entrata e all’uscita di ogni checkpoint. Uno scenario quasi apocalittico cui assistevamo da casa, impotenti ed attoniti.

Sembravano immagini lontanissime dalle nostre abitudini e dalla nostra cultura. Invece, nel giro di un mese e mezzo, l’Italia si sarebbe ritrovata interamente in regime di lockdown, con divieti e limitazioni agli spostamenti mai visti prima e l’accensione temporanea di zone rosse in nuovi focolai particolarmente preoccupanti che, ad intermittenza, comparivano sul territorio nazionale. Un incubo per quasi 60 milioni di italiani che, smentendo molte delle iniziali ipotesi mediche, è diventato improvvisamente realtà.

In piena seconda ondata, ma all’inizio di una grande campagna vaccinale che coinvolgerà l’intera Europa, l’Italia deve ora fare i conti con una ripresa economica che si preannuncia difficilissima e densa di ostacoli. La chiusura praticamente totale nel periodo marzo-aprile e le nuove limitazioni imposte negli ultimi due mesi hanno messo in ginocchio migliaia di attività, a partire dal commercio e dal turismo. Il piano di sostegno annunciato col Recovery Fund europeo dovrebbe garantire al nostro Paese nei prossimi anni un totale di 208,8 miliardi di euro, di cui 127,4 in prestiti e 81,4 in sussidi a fondo perduto. Tuttavia resta ancora da capire come saranno spesi e quale sarà il contenuto delle riforme chieste dalla Commissione UE come “contropartita strutturale”.


LA NUOVA GOVERNANCE

Se il panico ed il pessimismo non devono sopraffarci, ancor più inopportuno è l’eccesso di ottimismo. La prima ondata della pandemia in Italia aveva messo a nudo le carenze di un sistema sanitario pubblico pesantemente compromesso da almeno venticinque anni di tagli orizzontali, privatizzazioni scriteriate e sacche di corruzione in varie regioni italiane (non solo al Sud). La seconda ondata ha invece scoperchiato la complessiva inadeguatezza della classe politica italiana nella gestione delle emergenze. Del resto, le tante calamità degli ultimi anni ci avevano già fornito un quadro piuttosto cupo in tal senso. Eppure, in questo caso, considerando le conoscenze medico-scientifiche acquisite, a spese del Paese, in primavera e gli appelli di numerosi esperti internazionali in merito all’elevata probabilità di una seconda ondata pandemica, si è davvero toccato il fondo, sia a livello centrale che locale.

La contemporanea nuova diffusione del virus in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna, dove da parecchie settimane è comparsa una variante che sarebbe molto più veloce a diffondersi del ceppo originario, suona dunque come una bocciatura dei sistemi neo-liberali, mostratisi tendenzialmente inefficaci nella gestione della crisi? In parte sì, ma non del tutto. Al di là del modello di sviluppo, che nei prossimi anni andrà comunque ripensato profondamente, e non solo alla luce della pandemia, al momento è fondamentale capire che la logica del problem solving caratterizzerà sempre di più la politica di questo secolo.

In un futuro non lontano, grazie anche alla spinta digitale, il pianeta non sarà più banalmente suddiviso in “democrazie” e “dittature”, definizioni già poco strutturate e talvolta contraddittorie, ma in sistemi funzionali e disfunzionali. Le dirigenze politiche che sapranno garantire efficienza amministrativa e giudiziaria, generare un ambiente economico competitivo e creare le condizioni per lo sviluppo di un benessere diffuso avranno la meglio su quelle incapaci di affrontare problemi e calamità, costantemente appesantite da sacche di corruzione e generalmente impreparate non solo e non tanto sul piano tecnico-amministrativo ma anche e soprattutto su quello culturale e scientifico.

Tra le peggiori conseguenze prodotte dalla ridefinizione della politica avviata dopo la fine della Guerra Fredda, c’è senz’altro la figura dell’uomo “pratico”, del professionista temporaneamente al servizio del Paese. Quasi sempre i leader entrati in politica con profili prevalentemente tecnici hanno finito per ottenere risultati disastrosi, a volte diventando veri e propri politici di professione senza nemmeno maturare quella visione globale e di lungo raggio che si richiede ad un capo di Stato o di governo radicato nel suo tempo.

La reazione “populista” che ne è derivata non ha fatto altro che accrescere l’instabilità e la confusione attraverso la costante strumentalizzazione delle inchieste giudiziarie su singoli esponenti politici e l’ossessiva interpretazione in chiave nazionale di ogni voto locale o referendario: fattori che hanno ingabbiato l’opinione pubblica in una costante campagna elettorale, dove uno scontro pavloviano tra tifoserie contrapposte ha ormai sostituito il dibattito sul presente e sul futuro.

Da un lato, i partiti tradizionali occidentali sbandierano i principi del ricambio generazionale e dell’alternanza ma, dall’altro, non fanno che riproporre ai vertici, con poche eccezioni, gli stessi volti da almeno un ventennio. Mentre guardavano e guardano ancora criticamente alle leadership di lunga durata in contesti geografici, storici e culturali diversi dal nostro, la nazione più importante nell’architettura europea è stata guidata per quindici anni consecutivi dalla stessa persona, che ora si appresta a concludere il sedicesimo. Intendiamoci, non si può certo mettere in discussione la sua capacità di governo, le sue abilità di mediazione in un contesto difficile ed il suo ampio consenso in patria ma questo criterio, in fin dei conti condivisibile, dovrebbe valere universalmente e sfatare definitivamente certi miti, inconsistenti e spesso persino controproducenti, della democrazia liberale.


SUPERARE GLI ANACRONISMI POLITICI

Il campo occidentale era già andato in cortocircuito nel 2016, con l’affermazione della Brexit nel Regno Unito e la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Gli stessi Paesi che avevano più di tutti contribuito ad innescare il processo di globalizzazione tra gli anni Ottanta e Novanta hanno così tentato di ribaltare il banco nel momento stesso in cui le loro élite, o parti di esse, si sono rese conto che molte delle carte vincenti erano ormai finite in mano ad altre potenze, a partire da quelle emergenti dei BRICS.

D’altronde, come avrebbero potuto, questi ed altri attori in via di sviluppo, continuare ancora per decenni a giocare il ruolo di attori a mera vocazione regionale o di mercati a basso reddito ed alta intensità di manodopera a disposizione delle nostre imprese interessate a delocalizzare? Come avremmo potuto impedire alle loro classi dirigenti di pensare e mettere in campo strategie di sviluppo e di espansione indipendenti dalle nostre?

A quasi due mesi dal voto presidenziale non sappiamo ancora con certezza chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Se fosse definitivamente confermata la vittoria di Joseph Biden, a guidare gli Stati Uniti sarebbe un settantottenne, mentre se i ricorsi di Donald Trump dovessero clamorosamente essere accolti, toccherà ad un settantaquattrenne. Simultaneamente, la Cina di Xi Jinping (67 anni) si prepara al probabile ricambio del 2023, quando dovrebbe definitivamente salire al comando la sesta generazione del Partito. Pechino consolida la sua leadership sulla base di risultati effettivi ottenuti sia sul piano economico e sociale, con il raggiungimento degli obiettivi di eliminazione della povertà assoluta fissati per il 2021, sia su quello logistico-sanitario, con la guerra ad un virus tutt’altro che artificiale e, dunque, ben più pericoloso di quanto credessero complottisti o divulgatori seriali di bufale.

Nel mezzo, e non solo sulla carta del planisfero, c’è l’Europa, dove la Commissione Von der Leyen è chiamata a ricostruire una società divisa ed un’economia fragile già prima della pandemia. All’interno del Vecchio Continente, nel cuore di un mare ben poco nostrum, troviamo un’Italia del tutto periferica, che ha nelle sue micro, piccole e medie imprese competitive sui mercati esteri l’unica vera scialuppa di salvataggio. Alzare ulteriormente la pressione fiscale su di loro e sulla classe media significherebbe distruggere il Paese. Pensare ad una rimodulazione che riveda al rialzo le aliquote per i grandi patrimoni potrebbe fornire qualche risorsa aggiuntiva nel breve termine ma non sarebbe sufficiente nel medio e lungo periodo, rischiando persino di affossare il mercato immobiliare, già in grande difficoltà in tutta Italia al di fuori di alcune aree metropolitane.

Su questo fronte non avremo una soluzione efficace e definitiva fin quando non sarà compiuto l’ultimo passo nel quadro dell’integrazione economica europea, riprendendo in mano la discussione sull’armonizzazione fiscale, ivi inclusa la digital tax, una questione fin’ora lasciata alla debolezza negoziale di alcuni singoli governi nazionali, intimoriti dalle ritorsioni minacciate da Washington e frustrati dalle scappatoie garantite dai paradisi fiscali interni all’UE.

Mentre l’intero arco parlamentare italiano, da destra a sinistra, non sembra assolutamente capace di mettere in discussione questo schema di costante subalternità internazionale, dobbiamo tener conto di un sistema delle imprese che chiede a gran voce, ad esempio, di ripristinare gli scambi commerciali con la Russia, di poter ampliare quelli con l’Iran, di non mettere a repentaglio gli investimenti in Egitto, di non cedere minimamente all’ipotesi dello scontro frontale con la Turchia, di non compromettere in alcun modo le relazioni con la Cina, specie sull’onda della forte crescita del mercato dei consumi, così come chiedeva di proteggere i propri interessi in Libia nel 2011. Sarà in grado la politica di ascoltare queste voci e agire di conseguenza?




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